Definizione

L’erba inumidiva di rugiada i piedi di Adamo, chino a specchiarsi sulle sponde rocciose del fiume. L’atteggiamento vanesio con cui soleva vezzeggiarsi per aver dato nome a tutto il Creato, sfociò nel dubbio che abbisognasse d’un nome di simile aspetto. L’Eterno Iddio, fatto cadere Adamo in un sonno profondo, ne prese allora una delle costole, la sostituì alla carne e lo risvegliò di soprassalto. Da quella stessa carne, di quelle stesse ossa, nacque la donna, chiamata Eva mentre si battezzava la fronte nelle acque, denominata peccatrice mentre ne beveva per sedurlo. Deciso a misurare la loro sete, l’Eterno Iddio privò d’un frutto soltanto quelle due bocche che, tanto simili nel gusto per il proibito, furono punite per sempre al digiuno della fede.

Il gorgoglio delle onde, strozzato dagli scogli, inumidisce le venature delle foglie per il freddo che rende limpido il tedio dell’inverno al novilunio. Nuccio siede sulla finestra per punteggiare con l’indice le stelle prima di racchiuderle nel tocco del palmo e legarle al soffitto della cucina. I riflessi della notte, come ciondoli d’un carillon mossi dal vento, scivolano dagli occhi sonnambuli all’incubo del seno mutilato che, da materno, è divenuto il suo in tutto se non nel frutto. Quel seno è orgoglio e lussuria nel solco sull’addome marcito nel colore delle nature morte per la più fradicia delle mele scelta dalla sorte. Fatto appello alla legge del contrappasso, i peccati si scontano di generazione in generazione, e Nuccio, avvolto dalle tende, si dondola su se stesso nel tentativo di comprendere se l’ “originale” sia stato la forza della tentazione o la debolezza dell’accondiscendenza. Uno dei suoi amici più cari, scoperta la sua sessualità, lo aveva rassicurato nel dirgli che tra di loro non sarebbe mai cambiato nulla, prima di chiedergli, più impaurito che incuriosito, “Nù, ma ci si diventa?” o “Ma quando abiterai con il tuo compagno, chi farà l’uomo? Chi farà la donna?” Aveva sorriso nel chiederglielo e Nuccio nel rispondergli, dopo avere compreso che se mai gli fosse stato concesso di unirsi nel patto di due persone qualunque, non gli sarebbe stato concesso di costruire una famiglia tradizionale come chiunque altro, lì dove tradizione significa definizione. E se è definito che chi pulisce casa non porta i pantaloni, allora è definito che chi farà il primo passo sarà dei due il marito e chi si lascerà calpestare i piedi, sarà dei due la moglie. Quegli amici che non se ne sono stupiti affatto, gli avevano rivelato di averlo da sempre saputo, data la sua attenzione per le cose belle, tra cui Anna, la bellezza per antonomasia o, forse, per invidia, che lui aveva sempre osservato da lontano, seppur le donne “vogliano una cosa sola” e nessun vero uomo avrebbe mai potuto resistervi. Gli avevano rivelato di poterlo accettare in nome della fratellanza con cui erano cresciuti, perché Dio è misericordioso, perché l’ha detto Papa Francesco che l’amore è uguale per tutti, perché la Chiesa è un’altra cosa. In Chiesa la causa dell’autorità è eletta a verità santa di ogni matrimonio come unione per il concepimento, quindi, Nuccio aveva compreso che se mai gli fosse stato concesso di essere marito, non gli sarebbe stato concesso di essere genitore, nel bene di ogni figlio adottato che non avrebbe mai potuto trovare conforto nell’affetto di soli uomini, ciascuno troppo impegnato nella carriera per dedicarsi ai sentimenti, troppo forte per essere sensibile, troppo per essere così poco da insegnare. Venuti a conoscenza degli abusi a casa, gli avevano domandato se suo padre si fosse mai avventato contro di lui e Nuccio, nell’imbarazzo del “gentil sesso” che non contempla il senso dell’autorità, aveva risposto “Io? Ma io non sono mica una donna!” Quella volta in cui suo padre lo aveva preso in disparte per invitarlo a capire che educare sua madre era stato educativo e morale, lui aveva aspettato che da un momento all’altro gli dicesse altro per giustificare la battuta, ma invano l’assurdo era divenuto la normalità e sapeva che lo sarebbe stata per tutti quelli che, cresciuti per sottomettere, non avrebbero mai potuto tollerare l’onere di riconoscere un figlio destinato a essere sottomesso. Un frocio. Bene, se mai gli fosse stato concesso di essere un frocio, allora non gli sarebbe stato concesso di essere un uomo, ma di essere nel mezzo: osare ma il giusto per non dare nell’occhio, dire ma sottovoce per non destare scalpore, baciare ma in disparte per non infastidire i bambini che “ancora determinate cose non le comprendono” e “potrebbero confondersi.” L’autorità santa punisce il crimine di chi, nel mezzo, è contro-natura, ’che se fossero stati tutti invertiti non sarebbe mai esistita la legge del più forte e sarebbero stati tutti deboli, tutti uomini che hanno rinunciato alla posizione di supremazia per abbassarsi alla scellerata logica della Creazione. Un frocio è una donna per ogni volta che nel combattere la paura suscitata dall’altro si decide di categorizzarne la diversità in quella che diventa, per definizione, una minoranza. Ma se ogni minoranza rappresenta una minaccia e nessuna minaccia è mai vera o presunta, adesso, mentre continua a dondolarsi su se stesso, Nuccio si chiede cosa accadrebbe se quella minoranza, all’improvviso, divenisse maggioranza. Convinto di poter resistere alla sete di un seno mutilato per divenire l’unico sostentamento di cui ha bisogno, Nuccio confessa il peccato dell’accondiscendenza nella preghiera della sottomissione. In nome di tutti quei froci vittime di una logica che non hanno scelto, sceglie di raggirare la Provvidenza per rinascere come il nuovo Adamo dalle costole di Eva. Nei lamenti del parto, si scioglie poi dalle tende e strappa le stelle dal soffitto per scavalcare il cancello sulla scogliera e restituirle al cielo, già rischiarato dalle lunghe dita rosee che, all’orizzonte, si allungano alle sue per stringergli il palmo della mano.

La rateta

Una topolina dalle campagne fertili di piogge si rifugiò per la tempesta in un caseggiato dal soffitto asciutto di fumo. Le imposte tarlate erano traversate da una canna fumaria che adombrava la parete delle suppellettili e le fette di focaccia ardenti sulla graticola. In un giorno di festa, annusando le briciole di fame, ritrovò nel vano della scala presso cui soleva acquietarsi a riposare, un soldo a farle da cuscino per i desideri di tutte le notti.
Quando, nell’assecondare il vanto del suo giovane manto, esaudì di rimediare un fiocco rosa que l’amor s’hi posa, gli animali giunsero d’ogni sentiero per corteggiarla: il cane abbaiò, l’asino ragliò, il gallo cantò per tre volte e, alla prima, batté le ali per risollevar la cresta sul ciglio del campanile. Ma ecco che la paura, melliflua e seduttrice, sgattaiolò tra tutti i pretendenti e, in un miagolio soltanto, le consentì di misurare il brivido dell’oca. Le compagne di tana la sollecitarono a non ingannare le sorti di natura, ma, in preda all’estasi, la topolina rivolse ai loro inviti indulgente sufficienza, perché lei mai sarebbe morta di paura. Si sposarono nel silenzio degli invitati, su un altare il cui legno fu graffiato dal passo per, direte voi, baciarla. Il gatto non smise di pulirsi le fauci dell’ultimo sangue allorché lo squittio si mutò in miagolio nell’ombra di ciò che di lei restava. Il fiocco rosa, que l’amor s’hi posa.
Maria conobbe Franco all’imbrunire del suo sedicesimo compleanno.

Il fiocco rosa

Si divertiva da morire a indossare i vestiti di sua madre e a imitarla. E quanto s’innervosiva lei. Era troppo bravo.  “Nuccio!” gridava “Smettila!” Ma non voleva saperne nulla. Quel rossetto, quegli orecchini di perla, non gli parevano fuori posto su quel viso. Non a lui. La madre così lo trascinava in bagno e con occhi spaventati, esterrefatti, di disgusto, chiudeva la porta alle sue spalle, perché nessun altro sguardo potesse essere come il suo. “Un bambino non gioca con le bambole, Nuccio. Un bambino gioca con i soldatini, con le macchine!” Pioveva quando la convinse ad accompagnarlo in una scuola di danza. Avrebbe saltato anche lui finalmente, fatto girare il suo corpo per ore e ore, sudato di fatica! D’estate costringeva zii e cugine ad assistere ai suoi spettacoli: applaudivano forte, con i visi che abbondavano di sorrisi, paonazzi di risate. Pioveva sulle sue guance, che bruciavano di carezze troppo forti. “E te l’avevo detto a mamma che a lui queste cose non piacciono, ma lo fa per il tuo bene!” Un padre pretende il meglio per il figlio e serviva che iniziasse a capire cosa fosse meglio per la sua crescita. Un giorno Nuccio entrò in camera da letto e, indossate una delle giacche d’ufficio, si avvicinò allo specchio per iniziare a urlare com’era abituato a vedergli fare, mimando con le dita il gesto della pistola, sparando tre volte dritto al suo riflesso. A scuola, mentre i compagnetti continuavano a prenderlo in giro, si bendò gli occhi per asciugare le lacrime con il fiocco del grembiule, rosa come quelle scarpette che non avrebbe mai dovuto volere sue. Lo strinse tra i denti per trattenere i singhiozzi quando le gettò insieme alle bambole tra i chicchi di riso avanzati durante il pranzo e le richiuse sotto il coperchio per poterle dimenticare. Poi, diventato blu, lo lasciò scivolare dalle labbra e aspettò che piano piano gli si stringesse addosso, come fosse un cappio al collo.  Nuccio di certo stava iniziando a capire. Rosa o blu? È una scelta che costa la vita.