Anna

Oblò

Le finestre si spalancano nel chiacchiericcio del tabacchi e nel silenzio degli elemosinanti accovacciati sui bicchieri di plastica, riempiti per due dita soltanto dagli spiccioli della gente all’angolo del marciapiede, dove restano i carrelli dell’ipermercato in file scomposte, come quelle delle macchine parcheggiate in doppia fila per via Venini, sino ai semafori lampeggianti d’arancio. Il mezzogiorno è un rintocco fragoroso dell’orologio a pendolo sulla parete bianca, puntellinata dai  quadri a punto croce nei colori delle quattro stagioni, mentre il freddo si rimescola nel sugo con il cucchiaio in legno, cosparso dagli spicchi d’aglio e dal guanciale che il padre d’Anna, educato alla campagna fin da ragazzino, ha spedito dalla Sicilia nel cartone dei formaggi stagionati, sgranati sulla grattugia bagnata dal detersivo al limone.
“Ma le cose tanto per farle le fai! Dammi qua, da’!”
I capelli raccolti in un tuppo cadono in ciocche ondulate lungo le curve delle orecchie e le tempie arrossate dai fornelli, schiarite nel candore delle unghie lisce a punta di mandorla sulle mani di Nuccio che, dopo essersi avvicinato per riprenderle i piatti dalle mani, socchiude le ciglia a un riflesso di luce sul pavimento tra i panni a righe e la felpa nera col cappuccio già scolorito a braccia aperte sull’acqua. Anna, di corsa a prendere gli stracci, continua a chiamarlo tra un sospiro e un altro, per farsi spazio fino alla porta del bagno e inginocchiarsi a premere tutti i pulsanti nel gorgoglio della centrifuga che è simile al suo mentre rovescia la nuca sulle spalle. Nuccio intravede, dal colletto bianco del maglione stretto sulle clavicole, le vene gonfie tra i capelli ormai sciolti ma, appena preso il secchio all’ingresso, scivola per lo slancio di lei intenta a gettargli i panni addosso, con la schiena tremante e l’addome rientrante sui fianchi stretti. Le risate scattano rapide come i salti sulle pozzanghere di Novembre da bambini mentre si rincorrono da una stanza all’altra per poi, lente, arrendersi al gioco in un lenzuolo di schiuma simile a quello del mare sulla riva dove, stanchi, si cercano l’un l’altra, ignari degli impulsi del corpo e d’un turbamento particolare che si stringe in un pugno come lungo le passeggiate sui viali di Luglio. Proprio per la coscienza di sapersi aspettare ovunque, osservando l’oblò della lavatrice come fosse quello di una nave che prende il largo, si chiedono dove li porteranno le onde.